L’Italia è terza al mondo per la produzione di biogas dopo Germania e Cina (Fonte Terna 2015), grazie a circa 1300 impianti di cui più del 10% solo nella provincia di Cremona.
E questa è una buona notizia. Tuttavia la medaglia ha un suo rovescio, costituito da diversi incidenti che hanno visto coinvolti gli impianti di biogas.
In particolare, è spesso capitato che si siano verificati episodi di inquinamento delle falde acquifere, che hanno portato al divieto di utilizzo dell’acqua anche a distanza di alcuni chilometri dall’impianto, a moria di pesci, versamento di liquami e varie problematiche ambientali.
«Sono due i tipi di inquinamento legati al biogas: inquinamento delle falde acquifere e inquinamento dell’aria (fumi e cattivi odori) nei pressi degli impianti di biogas. – spiega l’ingegnere Massimiliano Sassi, esperto di sicurezza ed energie rinnovabili – Questi problemi si sono presentati sia all’estero sia in Italia, e sono dovuti in genere alla manutenzione dell’impianto curata con superficialità o a difetti costruttivi, soprattutto in Italia. Infatti, molte volte questi impianti sono stati costruiti in gran fretta per rientrare nei tempi richiesti dalle pratiche di incentivazione».
Interessante notare che mentre negli impianti fotovoltaici i danni sono legati agli imprenditori, che subiscono direttamente le conseguenze economiche del danno (es. incendio) nel caso del biogas i problemi diventano della collettività e del territorio circostante l’impianto.
Come funzionano gli impianti a biogas e perché ci sono problemi
Questi impianti sono in sostanza dei fermentatori; molto spesso la fermentazione avviene all’interno di vasconi di cemento armato coperti da un telo isolante, all’apice del quale si preleva il biogas. «Nel caso di costruzioni frettolose, il cemento armato non ha maturato i tempi necessari al suo corretto utilizzo quindi non diventa sufficientemente resistente. – spiega Sassi – Oppure le resine epossidiche utilizzate internamente non lo proteggono abbastanza».
Dato che le sostanze (dette digestanti) contenute all’interno delle vasche (dette digestori, che per un impianto da 1 MW contengono più di 3 mila metri cubi di materiale digestante) sono molto corrosive, tendono a erodere e a infiltrarsi nel cemento armato creando microfessurazioni dalle quali il digestato (materiale già fermentato) tende a fuoruscire.
«Nei casi più gravi si creano vere e proprie falle nel cemento armato con fuoruscite molto importanti di materiale fortemente inquinante. – continua Sassi – Il più delle volte, inoltre, gli involucri in cemento armato vengono coibentati in modo da favorire il processo di fermentazione a una temperatura costante (processo in mesofilia che avviene a circa 40 gradi). Dato che la coibentazione che viene costruita sopra l’involucro di cemento armato lo nasconde completamente, piccole fuoruscite di materiale digestante e digestato nella grande maggioranza dei casi non vengono rilevate tempestivamente».
Gli incidenti
In Italia si sono già verificati alcuni incidenti con incendi ed esplosioni.
Per fortuna questi incidenti non sono stati gravi rispetto ad altri casi documentati all’estero con conseguenze molto più disastrose. «In Germania, per esempio, dato l’altissimo numero di impianti e i conseguenti incidenti questi vengono catalogati puntualmente per causa, situazione di inquinamento e persone coinvolte nell’incidente. – racconta Sassi – Nel nostro Paese per lo più si sono verificati sversamenti nel terreno. Questo tipo di contaminazione dell’ambiente, comunque, richiede in molti casi opportune bonifiche della durata anche di 10-15 anni. Si tratta di bonifiche necessarie per ripristinare il terreno nelle condizioni originarie. Senza contare poi, i costi processuali, di natura penale, che qualcuno deve sostenere.»
Se non si tratta di versamenti nel terreno, ci possono essere le dispersioni di gas in atmosfera. E si contano decine e decine di segnalazioni all’Arpa e all’Asl da parte di cittadini che abitano anche a qualche chilometro di distanza dagli impianti: ricorre sempre la stessa descrizione del problema, ovvero la puzza di uova marce (provocata dall’acido solfidrico, o solfuro di idrogeno, H2S) che disturba la normale quotidianità.
«Il più delle volte queste dispersioni nell’atmosfera potrebbero essere evitate semplicemente facendo la normale manutenzione ai motori degli agitatori che servono a mescolare il digestato all’interno dei vasconi di fermentazione.» spiega Sassi.
Cose c’è negli impianti
L’idea della produzione di biogas è nata per valorizzare i rifiuti reflui, le deiezioni animali, gli scarti dell’industriae per valorizzare e sfruttare a pieno questo materiale in un’ottica di economie circolari. Ma anche se in Italia esistono esempi virtuosi di impianti a biogas che sfruttano questi principi, (per esempio, la Caviro a Faenza, che funziona con gli scarti derivati dalla produzione del vino, oppure la Amadori in provincia di Teramo, che sfrutta grassi proteine e residui di panatura e scarti della lavorazione delle carni, mentre a Benevento gli oleifici Mataluni convertono i reflui oleari in energia, tanto per citare i più noti), il maggiore interesse nella realizzazione degli impianti si è avuto con l’incentivazione da parte dello Stato.
«E soprattutto nella Pianura Padana, dove ha sede più dell’80 per cento degli impianti a biogas italiani, la quasi totalità degli impianti funziona, invece, attraverso l’utilizzo di culture come il sorgo e il mais. – spiega Sassi – Questi ingredienti, rispetto agli altri materiali hanno più del doppio della produttività: 550-750 metri cubi di biogas per tonnellata al confronto delle deiezioni animali che producono mediamente da 200 a 500 metri cubi per tonnellata o dei residui colturali come la paglia che producono 350-400 metri cubi di biogas a tonnellata. Tutte queste sostanze sono metanigene, cioè producono gas metano, che viene poi bruciato per essere trasformato in energia elettrica.»
Recentissimamente è possibile oltre che produrre energia elettrica anche immettere il gas prodotto – opportunamente filtrato – nella rete di distribuzione del metano. Questa è una strategia molto appoggiata dal nostro Governo attuale, seguendo l’esempio tedesco.
L’uso di sostanze per velocizzare i processi
Il potenziale business ha però scatenato la creatività, gli appetiti e anche un eccesso di azzardo. «Gli imprenditori agricoli che hanno fatto investimenti che pesano diversi milioni di euro per fare rendere di più gli impianti e incrementare la produzione, utilizzano anche sostanze chimiche che aumentano la velocità del processo di digestione anaerobica – spiega Sassi – Sostanze che in realtà finiscono per creare problemi all’impianto e quindi sono potenzialmente pericolose. Questi componenti chimici normalmente si usano nel fase di start up degli impianti, ma poi continuano ad essere utilizzati in modo inappropriato.»
La manutenzione e i ritorni economici
Chi ha realizzato gli impianti normalmente fornisce anchecontratti di manutenzione full service che in realtà sono limitati al monitoraggio dei parametri chimici e non focalizzano l’attenzione sulle strutture e sulla manutenzione predittiva, fortemente consigliata per prevenire eventuali incidenti. «Solo recentemente, visto gli incidenti che stanno succedendo, le società cominciano a proporre anche manutenzioni diverse ma che naturalmente implicano costi aggiuntivi che l’imprenditore agricolo fa fatica ad accettare visto che gli era stato detto, al momento dell’acquisto dell’impianto, che non avrebbe avuto costi di gestione importanti data la semplicità del processo di produzione del biogas. – spiega Sassi – L’imprenditore non si aspettava neanche che i suo ritorni economici previsti non fossero garantiti a causa della gestione più complessa e necessariamente imprenditoriale che un impianto di produzione di energia elettrica richiede.»
Insomma il business, proprio come una sostanza gassosa, è più volatile e bisognoso di attenzioni del previsto.
FONTE ARTICOLO https://it.businessinsider.com/il-lato-oscuro-del-biogas-tra-difetti-di-costruzione-degli-impianti-e-poca-manutenzione/