Il Segno dell’Immagine, nel viaggio e nel racconto di Ciccio Cariati: il Fotografo Alchimista.
La forma espressiva ancella di quella narrativa è certamente la Fotografia, lo sapeva bene Ciccio Cariati, maestro fotografo d’incontrovertibile bravura e spiccata intelligenza, professionista acuto e vivace; acritano d’adozione, stimato avvocato che a questa comunità cittadina, ha saputo donare molte cose: la fotografia era certamente una di queste.
Chi gli è stato amico lo sapeva bene, era appassionato di fotografia, raccontava per immagini la cultura e le tradizioni della sua regione d’origine, la Calabria. Il suo percorso artistico si snoda attraverso varie tematiche, l’attualità, la storia, il viaggio, la religiosità popolare, e molte altre ancora, tutte legate da un unico filo conduttore: la costante ricerca di una forma nel caos della vita.
Se n’è andato in silenzio e con la dignità di chi ha tanto sofferto la mostruosità di un male orribile, che forse sapeva sin troppo bene che anzi tempo lo avrebbe costretto ad abbandonare affetti e passioni; portandolo via crudelmente, strappandolo a noi tutti, alla sua famiglia, ai suoi amici e sin anche alla sua amata fotografia.
Quando mi capitava di discutere con lui di fotografia eravamo concordi su una cosa, la fotografia è una lingua. La lingua muta dell’umanità. Un poco come avviene per la memoria, che svolge il compito di tenere vive e legate insieme, persone e storie. Narrazioni, che non mancano certo di suggestioni: i paesaggi, le strade, le sue ossessioni tematiche, i riflessi, (memorabili le mani di Ettore Scola); gli animali, gli oggetti e le cose e infine i ritratti dei suoi amici.
Gli ho spesso detto che un fotografo, uno scrittore, un poeta, un sociologo, un giornalista, si ritrovano ad avere in comune molte cose; tante, troppe cose, in comune: eravamo concordi che ciò che legava il fotografo a tutti gli altri ruoli, fosse proprio quel comune desiderio di dipingere paesaggi (più completi possibile) dei luoghi che si vivono, si abitano e che si ha la fortuna malgrado tutto di attraversare.
Ciccio ha saputo essere tutte queste cose, ha saputo fornire un modello esemplare a chi scrive; ai fotografi e anche a coloro i quali in un modo o in un altro, debbono misurararsi con la rappresentazione della realtà.
Qualcuno sostiene che la fotografia non dice la verità, ma riesce a dire sicuramente ciò che è stato; forse è proprio vero, la fotografia semplicemente mostra, e non ha obblighi di dimostrare alcun che; proprio per questo il fotografo ambisce in un certo qual modo ad essere un testimone invisibile, che mai, interviene per modificare il mondo e gli istanti che della realtà legge e interpreta. Forse proprio per questo lui amava la distinzione netta, tra le immagini trovate e quelle costruite; perciò è riuscito ad essere un formidabile fotografo, apparteneva al versante dei fotografi che le immagini le trovano, poi, con elegante e raffinata cura, quelle stesse immagini le raccontano e magari avendo preso gusto alla narrazione più raffinata, cominciava a raccontarti quelle stesse cose, quasi si trovasse col suo obiettivo a coglierne i riflessi attraverso uno specchio magico. Era un alchimista Ciccio, un alchimista della fotografia.
In fondo “quando si fotografa non si cerca di presentare un’argomentazione o dimostrare una tesi. Non c’è niente da dimostrare. La fotografia viene da sola. Non è un mezzo di propaganda, ma un modo di gridare quello che senti. Si può paragonare alla differenza tra un libello di propaganda e un romanzo. Il romanzo deve passare per tutti i canali nervosi, per l’immaginazione. Ha molta più forza di un pamphlet a cui si getta un’occhiata per poi buttarlo via. La poesia è l’essenza di tutto”.
il maestro amava scattare, amava Essere presente. Era il suo modo di dire: “Sì! Sì! Sì!”, come le ultime tre parole dell’Ulisse di Joyce”.
E’ stato un sincero protagonista di questa strana società cittadina; uomo schietto, che è uscito di scena in silenzio nel riverbero del la sua stessa testimonianza di maestro, amato e stimato a ragion veduta da tanti.
Proprio ora, in cui la parola e la letteratura sembrerebbero aver abdicato al ruolo del raccontare la realtà; proprio quando questo compito, ora più che mai si è tentato di affidarlo a immagini inconcludenti che non alimentano poesia e bellezza; proprio ora la sua assenza sarà ancora più orribile ed il suo vuoto del tutto inconsolabile…
L’uomo dell’era fotografica che rifuggiva dall’era bio-fotografica, in cui gli strumenti di rappresentazione visiva della realtà, sembrano spuntare come appendici epidermiche, cartilaginee, digitali di cellulari e telecamere microscopiche; quell’uomo con la sua macchina al collo, non punterà più l’occhio in camera; lui che ha intrattenuto relazioni virtuose con l’obiettivo, con le immagini, i commenti o le interpretazioni di quelle stesse immagini; ma si merita di essere presente alla memoria personale e collettiva di questa comunità, nell’olimpo dei migliori. Perciò la memoria di Ciccio merita di essere preservata e ricordata, soprattutto da quella associazione Diogene – Foto amatori Acri, che dovrà sapersi far carico di curare e preservare il suo ricordo. Nella sensazione di vicinanza tra quell’escamotage e una più ampia comprensione dei rapporti fra la pratica del vedere, la pratica del ricordare ciò che si è visto e la pratica del saperlo raccontare anche agli altri,in tutto questo c’è e dovrà continuare ad esserci Ciccio Cariati. Sarà perciò proprio questa serie di azioni e di riflessioni a riassume il perimetro della sua spettacolare attività fotografica.
Circa il mio infelice e goffo tentativo di descrizione dell’amicizia che abbiamo condiviso, è unicamente metafora del rapporto instabile, fra la memoria delle sue immagini e la mia breve narrazione, come equazione complessa che regola la massa delle cose vissute insieme, e la massa delle cose viste, ma oramai bruscamente interrotte.
L’Auspicio è che a tempo debito quelle magnifiche immagini che Cariati ha saputo regalarci negli anni, avranno modo di costituire un catalogo in grande stile e affascinante eleganza, delle bellissime Foto, che ha realizzato negli anni, e che permetteranno a noi tutti amici ed estimatori, di raccontare anche ritroso, la storia della sua opera, in un un vero e proprio memoir iconografico. Perché si sa, i fotografi raramente si riappropriano di quell’ambizione totale, di rappresentare un intero paese o un’intera città con i mezzi narrativi più sostanziali, e perché magari anche i narratori, talvolta non li trascinano nel vortice esplorativo più complesso della loro interpretazione più intensa e profonda.
La storia fotografica raccontata da Ciccio Cariati è scandita da temi e capitoli, la sua narrazione si muove nel tempo e nello spazio della meridionalità, e ogni tentativo di rappresentare la fotografia senza parole, si ridurrebbe maldestramente solo a un mero elenco di cosa si vede in ciascuna delle immagini che lo compongono, senza avvicinarsi neppure lontanamente al centro dell’ellittica orbita che disegna l’autentico percorso amatoriale di un fotografo che non ha mai ignorato di riuscire ed evolversi in un abile professionista dal tocco di alchimista.
Ecco perché ho avuto in animo di tornare sul suo viaggio professionale, per tentare a mio modo di avvicinare l’ammaliante fotografo, ad una bella poesia che non posso né voglio smettere di rileggere, tutte le volte che lo ripenso ed osservo le sue immagini.
Ciao Big Ciccio, resterai sempre.
Angela Maria Spina