di Giulia Manfredi
Ieri, una band musicale ha varcato le soglie del Centro di Solidarietà “Il Delfino”, per la prima volta nella storia ormai trentennale di questa cooperativa sociale che svolge attività di prevenzione e trattamento delle dipendenze, nelle loro diverse forme e manifestazioni. Le sonorità folk-rock de “I Moti Rivoluzionari” hanno intrattenuto gli ospiti e gli operatori del centro, attraverso un reciproco e prezioso scambio di racconti, sguardi e prospettive.
Abbiamo incontrato tante anime belle, in lotta con i propri demoni, anime salve, come le avrebbe definite De André. Ed è proprio con un suo pezzo che il concerto è iniziato, “Quello che non ho”, scritto per i nativi d’America utilizzando il punto di vista dell’oppresso piuttosto che quello dell’oppressore e divenuto, nell’immaginario collettivo, tra i racconti più simbolici della diversità e dell’emarginazione. Il live è proseguito poi con tante altre storie di resistenza, da “Il partigiano John” a “Josephine”, pezzo scritto dal gruppo.
Abbiamo condiviso spensieratezza ed entusiasmo, riuscendo, anche solo per qualche istante, a “correre più forte della malinconia”.
Cantando e ballando insieme, ci siamo specchiati l’uno nell’altro e ci siamo scoperti simili, ciascuno con le proprie fragilità e la propria, quotidiana battaglia da combattere.
Chiunque la società releghi ai margini, lo fa soltanto per mancanza di coraggio o, peggio, per indifferenza. Chi pensa che la soluzione sia costruire barriere o innalzare muri è incapace di comprendere quanto la contaminazione sia fondamentale per la crescita di ognuno.
L’ultima immagine che abbiamo portato con noi del centro è quella di un murales realizzato dai ragazzi, che hanno la possibilità di svolgere diverse attività, assecondando le loro attitudini. Rappresentava una fenice, l’animale mitologico che risorge dalle proprie ceneri e che simboleggia perfettamente il travagliato percorso affrontato e il desiderio di riscatto.
Ci siamo salutati con il cuore in fiamme, cercando di imprimere nella nostra memoria ogni sguardo e stretta di mano, più consapevoli di sempre di quanto restare umani sia un imperativo categorico.