di Franco Bifano
Certe mattine leggi delle cose che fai fatica a mettere subito a fuoco. La prima cosa che ti passa per la mente è quella di aver letto male e pensi: “Ma dai, non può essere!” Allora cominci a maledire la parmigiana della sera prima, imprecando per averla mangiata sapendo che a volte non riesci proprio a digerirla, e che quindi la mattina ti ritrovi con le traveggole a prendere fischi per fiaschi.
L’altro ieri, l’otto marzo – festa delle donne – pur non avendo esagerato la sera prima a cena, ho avuto la sensazione di avere le idee confuse. Mi è capitato leggendo una comunicazione proveniente nientemeno che dal Ministero dell’Università e della Ricerca, un corposo opuscolo di 30 pagine dal titolo: ”Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del Miur”. Capperi! Roba che mette i brividi. Incuriosito, incomincio appunto a leggere l’introduzione che porta la firma del leggendario Ministro dell’Istruzione: “Le presenti linee guida – scrive la Fedeli – rappresentano uno strumento semplice e chiaro per l’uso corretto del genere grammaticale nel linguaggio amministrativo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca”. In buona sostanza si tratta, almeno nelle aspettative, “di un modo molto concreto di rafforzare l’uguaglianza di genere e favorire il rispetto delle differenze nell’ambito del sistema Istruzione”.
Intendiamoci, rimuovere le discriminazioni di genere anche nel linguaggio amministrativo è iniziativa lodevole, per quanto un tantino tardiva, considerato che siamo nel 2018. La questione andava se mai affrontata molto prima, oggi appare quasi anacronistica, destinata a suscitare perplessità quando non ilarità, ottenendo quindi scarsi risultati concreti.
Intanto, diciamo subito l’iniziativa parte già con il piede sbagliato, presentarla l’otto marzo appare opportuno come la candidatura di Renzi nelle recenti elezioni. Non è poi solo, naturalmente, un problema di opportunità ma di priorità. A meno che non si pensi davvero che dare maggiore importanza alla semantica e alla grammatica possa davvero fare la differenza. Infatti, “modernizzare” il linguaggio attraverso la distinzione grammaticale di genere, distinguendo quindi la Dirigente dal Dirigente, l’Avvocata dall’Avvocato, la Ministra dal Ministro, fino al più “contorto” la Revisora dal Revisore, non solo non appiana il divario ma semmai lo amplifica. Pertanto, l’iniziativa per quanto dettata da intenti nobili, appare sotto questo profilo molto ardita.
La parità non passa dalla forma, ma dalla sostanza. Infatti, duole dirlo, ma non penso potrà esserci parità di genere fino a quando le aziende prima di assumere una donna continueranno chiederle se intenda sposarsi e avere figli. La stessa non la si potrà mai ottenere se, a parità di mansioni, non verrà riconosciuto lo stesso stipendio alla donna come all’uomo. Non potrà realizzarsi fino a quando verrà negata alle donne la possibilità di far carriera, o dubitare dei meriti professionali delle stesse solo perché hanno le tette e portano la gonna. Insomma, l’esito felice della questione di genere non andrà a buon fine se non la smetteremo di dare più importanza al contenitore piuttosto che al contenuto.
C’è poco da fare, è questa la sfida da affrontare nei prossimi anni, per vincerla occorrerà fare un salto culturale notevole per mettere all’angolo la misoginia. Avere successo in questa sfida, vorrebbe dire vivere in una società migliore, più equilibrata e giusta, in cui un femminicidio è solo e comunque un omicidio.